Revolver edizioni nasce nel 2023 e prende il nome dal disco più ruvido dei Beatles, in cui i fab four hanno smesso di essere carini.
La missione che ci siamo posti è proprio quella di non seguire i tracciati facili dell’editoria, di non essere carini, appunto, generando un concetto di letteratura più onesto, indipendente dalle oscillazioni del mercato e lontano dalla triste prospettiva che vede il libro innanzitutto come un prodotto da vendere.
La nostra linea editoriale è improntata principalmente sulla narrativa italiana contemporanea di qualità, difficile da collocare nei cataloghi della cosiddetta “editoria mainstream” e capace di raccontare i tempi difficili in cui viviamo da angolazioni insolite, con intelligenza, stile e soprattutto senza retorica. Per questo prenderemo in considerazione solo quei testi che rispettino in tutto e per tutto la nostra visione, e non ci accontenteremo mai soltanto di una buona storia.
Il catalogo
Il nostro catalogo è formato da una collana aperta di narrativa, Eleanor, in cui verranno pubblicati romanzi non incasellabili in un genere definito, affiancata a mano a mano da una serie di collane a progetto composte da nove titoli, ciascuna con un’identità propria e riconoscibile.
In questo modo la casa editrice avrà l’obbligo morale di mantenersi fluida e in divenire, senza mai allontanarsi dall’obiettivo principale per cui è nata: la ricerca di nuovi stimoli.
Revolver, 6 aprile 1966
È il 6 aprile del 1966. Su Londra veleggia un cielo stanco, pallido. John, Paul, Ringo e George si stringono le mani callose all’ingresso dello Studio 3 di Abbey Road, e si sorridono. Sono passati quattro mesi dal loro incontro ufficiale più recente: il 12 dicembre 1965, una serata ghiacciata, hanno suonato per l’ultima volta al Capitol Theatre di Cardiff. Poi si sono presi una pausa. In questi quattro mesi, John ha scoperto gli orizzonti infiniti e interiori dei lisergici; Paul si è avvicinato all’avanguardia di John Cage, alla musica elettronica di Karlheinz Stockhausen e al free jazz di Ornette Coleman; George si è immerso nella filosofia indiana e nello studio del sitar; e Ringo ha continuato a fare quello che sa fare meglio: il collante, la melassa a percussione che tiene insieme tutto il gruppo.
Quattro mesi, per i Fab Four, sono tanti. È la pausa più lunga che si siano mai concessi. Dal 1961 al 1964 non si sono mai fermati. Nel ’64 si sono concessi la prima pausa: dal 16 febbraio al 19 aprile. Poi una seconda, nel ’65, leggermente più lunga: dal 16 gennaio all’11 aprile. E infine questa, di quasi quattro mesi. Più passano gli anni e più le pause crescono, quindi, in frequenza e in durata. Perché i Beatles sono stanchi. Non della musica – quello mai – ma di tutto quello che sta intorno: i fan in delirio, ovunque, i discografici impazienti, i concerti non-stop. La ripetizione continua e incessante di un prodotto. In due parole: la Beatlemania. «Non facciamo progressi perché suoniamo le stesse cose ogni giorno», «Una volta che esce il disco, tocca riprodurlo tale e quale. Non c’è spazio per l’improvvisazione, per il miglioramento dello stile.» Dischi-concerti, dischi-concerti, dischi-concerti: il mantra si ripete così tante volte da non avere più senso. Come una parola ripetuta all’infinito. La musica, in tutto quel frastuono, rischia di non avere più senso.
Così, il 6 aprile del 1966, i quattro di Liverpool si stringono le mani callose all’ingresso dello Studio 3 di Abbey Road. E decidono di cambiare. Innanzitutto, basta tour e basta concerti: terminati quelli già in programma (l’ultimo di lì a cinque mesi, il 29 agosto ’66, al Candlestic Park di San Francisco) non ce ne saranno altri. E poi la musica: anche quella ha da cambiare. E cambia eccome.
John prende spunto da Timothy Leary e dal Libro tibetano dei morti per teorizzare la morte dell’ego («Turn off your mind, relax and float downstream», Tomorrow Never Knows; traccia 7, lato 2); George suona il sitar accompagnato dal suonatore di tabla Anil Bhagwat (Love You To; traccia 4, lato 1); Paul si rifà al pop soul delle Supremes e della Motown per creare «un’ode all’erba» (Got to Get You into My Life; traccia 6, lato 2); e Ringo tiene insieme il tutto, battendo sui piatti e sui rullanti, e cantando una filastrocca un po’ stonata: «We all live in a yellow submarine, yellow submarine, yellow submarine».
Quattro mesi dopo quel 6 aprile, il 5 agosto 1966, esce Revolver – il disco più ruvido dei Beatles, il disco in cui i Fab Four hanno smesso di essere carini.
Non essere carino.