È il 6 aprile del 1966. Su Londra veleggia un cielo stanco, pallido. John, Paul, Ringo e George si stringono le mani callose all’ingresso dello Studio 3 di Abbey Road. Si sorridono. Sono passati quattro mesi dal loro incontro ufficiale più recente: il 12 dicembre 1965, una serata ghiacciata, hanno suonato per l’ultima volta al Capitol Theatre di Cardiff. Poi si sono presi una pausa: John ha scoperto gli orizzonti infiniti e interiori dei lisergici; Paul si è avvicinato all’avanguardia di John Cage, alla musica elettronica di Karlheinz Stockhausen e al free jazz di Ornette Coleman; George si è immerso nella filosofia indiana e nello studio del sitar; e Ringo ha continuato a fare quello che sa fare meglio: il collante, la melassa a percussione che tiene insieme tutto il gruppo.
Quattro mesi, per i Fab Four, sono tanti. È la pausa più lunga che si siano mai concessi. Dal 1961 al 1964 non si sono mai fermati. Nel ’64 si sono concessi la prima pausa: dal 16 febbraio al 19 aprile. Poi una seconda, nel ’65, leggermente più lunga: dal 16 gennaio all’11 aprile. E infine questa, di quasi quattro mesi. Più passano gli anni e più le pause crescono, quindi, in frequenza e in durata. Perché i Beatles sono stanchi. Non della musica – quello mai – ma di tutto quello che sta intorno: i fan in delirio, ovunque, i discografici impazienti, i concerti non-stop. La ripetizione continua e incessante di un prodotto. In due parole: la Beatlemania. «Non facciamo progressi perché suoniamo le stesse cose ogni giorno», «Una volta che esce il disco, tocca riprodurlo tale e quale. Non c’è spazio per l’improvvisazione, per il miglioramento dello stile.» Dischi-concerti, dischi-concerti, dischi-concerti: il mantra si ripete così tante volte da non avere più senso. Come una parola ripetuta all’infinito. La musica, in tutto quel frastuono, rischia di non avere più senso.
Così, il 6 aprile del 1966, i quattro di Liverpool si stringono le mani callose all’ingresso dello Studio 3 di Abbey Road. E decidono di cambiare. Innanzitutto, basta tour e basta concerti: terminati quelli già in programma (l’ultimo di lì a cinque mesi, il 29 agosto ’66, al Candlestic Park di San Francisco) non ce ne saranno altri. E poi la musica: anche quella ha da cambiare. E cambia eccome.
John prende spunto da Timothy Leary e dal Libro tibetano dei morti per teorizzare la morte dell’ego («Turn off your mind, relax and float downstream», Tomorrow Never Knows; traccia 7, lato 2); George suona il sitar accompagnato dal suonatore di tabla Anil Bhagwat (Love You To; traccia 4, lato 1); Paul si rifà al pop soul delle Supremes e della Motown per creare «un’ode all’erba» (Got to Get You into My Life; traccia 6, lato 2); e Ringo tiene insieme il tutto, battendo sui piatti e sui rullanti, e cantando una filastrocca un po’ stonata: «We all live in a yellow submarine, yellow submarine, yellow submarine».
Quattro mesi dopo, il 5 agosto 1966, esce Revolver – il disco più ruvido dei Beatles, il disco in cui i Fab Four hanno smesso di essere carini.
Non essere carino.